La storia di Verena dalla comunità di San patrignano ai teatri d’Italia.
Venerdì 20 gennaio abbiamo assistito allo spettacolo “Il posto giusto”, ideato e realizzato da WeFree, il progetto di prevenzione della comunità di San Patrignano. “Il posto giusto” è la storia di Verena, una giovane ragazza bolzanina che inciampa troppo presto nelle difficoltà della vita e nelle insidie delle multidipendeze. Verena arriva nella comunità di San Patrignano da minorenne. Oggi ha vent’anni, vive ad Innsbruck e frequenta l’Università. “Il posto giusto” è una storia di riscatto che Verena, dal 2021 e in prima persona, racconta e condivide con migliaia di studentə in tutta Italia.
A Bolzano, Verena ha raccontato la sua storia in due spettacoli: uno rivolto alle scuole e uno rivolto al pubblico pagante. Noi di Logos ci siamo occupati del matinée: l’IIS “Claudia ‘de Medici”, il Liceo Scientifico “Evangelista Torricelli” e la Scuola Professionale CTS “Luigi Einaudi” hanno riempito il Teatro Cristallo di presenza, partecipazione e attenzione. L’organizzazione dello spettacolo serale è, invece, frutto della collaborazione tra il Teatro Cristallo e il comitato provinciale UNICEF.
Ci siamo chiesti: “Ma perché è importante parlare di tossicodipendenza e disagio giovanile attraverso un racconto autobiografico?” Perché molto spesso il senso comune ci porta a giudicare male coloro che abusano di sostanze stupefacenti. In realtà, dietro alle dipendenze si cela un mondo fatto di solitudine, mancata comprensione, alienazione sociale; e questo è tanto più vero quando si è adolescentə: l’adolescenza – così ci dicono numerosi studi scientifici dal taglio psicologico e sociale – è, di per sé, un fattore di rischio. Quindi è importante adottare un approccio autobiografico perché solo attraverso la narrazione in prima persona si possono trasmettere stati d’animo ed emozioni: solo così – in altre parole – si arriva alla radice del “problema”.
Anche in ragione di queste considerazioni, abbiamo fatto qualche domanda a Verena. E no: questo articolo non assumerà il classico taglio degli articoli di giornale. Questo articolo vuole essere uno spunto di riflessione – per coloro i quali lo leggeranno – che parte dal racconto, personale ed autentico, delle emozioni che la protagonista stessa prova nel momento in cui il sipario si apre e si chiude. Buon viaggio!
L: “Verena! Innanzi tutto, quale messaggio ti piacerebbe arrivasse ai ragazzi?”
V: “A Bolzano abbiamo fatto due spettacoli: uno la mattina, dedicato alle scuole, e uno di sera, per tutti coloro che avessero voluto parteciparvi. A me piace parlare soprattutto ai ragazzi: quindi, mi piace rivolgermi a persone che, di base, hanno più o meno l’età che avevo io quando ho iniziato a prendere certe decisioni e a comportarmi in un certo modo. Lo slogan dello spettacolo non è ‘la droga fa male’. Lo slogan è ‘parliamoci e ascoltiamoci’. Che la droga faccia male, lo sappiamo tutti; lo sanno anche i bambini e lo sapevo anch’io ai tempi: non c’è bisogno di sensibilizzare su questo. Penso, piuttosto, che ci sia bisogno di aiutare i giovani a diventare tali senza avere bisogno di fare uso di certe sostanze. Poi, penso che l’errore più grande che io abbia fatto nella mia vita sia stato quello di non aprirmi mai, di non riuscire mai a parlare apertamente con i miei genitori per dirgli come mi sentivo. Quest’ansia da prestazione, questo voler fare tutto giusto, questo voler essere adulta nonostante avessi solo 13 anni, mi ha portata a tenermi dentro delle cose che, forse, sarebbe stato meglio tirar fuori il prima possibile. Quindi, quello che vorrei arrivasse ai ragazzi è che è importante avere almeno una persona su cui contare. Poi… Capisco che io sono stata fortunata ad avere una famiglia e c’è chi questa fortuna non ce l’ha. Ma penso che questa figura non per forza debba essere un genitore: che sia un insegnante, che sia un parente… Che sia chiunque! L’importante è che sia una persona adulta, perché tra amici è più facile tirarsi giù che tirarsi su semplicemente perché non si hanno proprio gli strumenti adatti per farlo.
L: “Cosa si prova a portare in scena il proprio racconto?”
V: “Bè! Non è facile. Penso che una delle emozioni più forti sia avere l’attenzione dei ragazzi: sentire di arrivare, sentire che c’è qualcosa che ci collega, mi dà una sensazione molto forte. Prima di salire sul palco sto sempre a pensare a come andrà, a come reagiranno i ragazzi, a quanti avranno voglia di ridere e di fare battute durante lo spettacolo, a quanti mi ascolteranno. C’è da dire, in realtà, che spero di arrivare soprattutto a quelli che ridono: magari durante tutto l’arco dello spettacolo fanno finta di non ascoltare, usano il cellulare, parlano tra di loro… Ma so che, molte volte, dietro quelle persone, si cela un po’ di disagio… Poi, una volta che scendo, mi sento molto più libera”.
L: “Che emozioni provi quando si chiude il sipario?”
V: “Mi sento libera. Io non valuto se uno spettacolo è andato bene o male in base a quanto applaudono le persone o a quanto silenzio c’è stato durante lo spettacolo. La sensazione più bella è quando i ragazzi vengono da te e ti abbracciano. Ecco: lì capisco che qualcosa è arrivato e penso sia una delle sensazioni più belle”
V: “Aggiungo un commento mio: penso che una delle parti più importanti sia il dopo. Sì: facciamo lo spettacolo; sì: venite a vedere. Però penso che sia importante dare del tempo ai ragazzi per metabolizzare. C’è bisogno che ci sia dialogo dopo. Penso sia compito degli insegnanti riprendere questo discorso. Io mi auguro vivamente che le singole scuole e gli insegnanti abbiano preso del tempo per riflettere.
Grazie, Verena, per esserti raccontata due volte: sul palco e a Logos!